Come noto, l’Italia è un paese in cui la corruzione è dilagante. Ci si può interrogare sui motivi che rendono questo fenomeno così presente nel nostro paese. Ci si può – anzi si deve – interrogare sulle soluzioni. Il dibattito su questi due fronti prosegue come è sempre proseguito, ma nulla di nuovo si intravede all’orizzonte. Non che il legislatore poltrisca. Da imputare è, semmai, la qualità delle proposte – e non l’aspetto della quantità.
Stretta nella morsa tra interessi personali e interessi di partito, una buona riforma della giustizia non ha ancora visto la luce. E’ urgente intervenire con l’arma della legge. Eppure, anche nella migliore delle ipotesi, anche immaginando che il Parlamento – un po’ per grazia divina e un po’ per l’operato di sparuti politici onesti – produca una legislazione finalmente efficiente, il problema non verrebbe risolto.
Il nucleo della questione è il seguente. La corruzione non è solo un problema tecnico, di leggi sbagliate e interpretazioni altrettanto sbagliate. E’ soprattutto un problema culturale. La corruzione non dilaga solo perché il sistema di norme attualmente in vigore glielo consente. Dilaga perché l’humus culturale che parte dell’Italia condivide è “affine”o funzionale alla corruzione stessa. Potrebbe sembrare un commento discriminatorio, per la serie “i soliti italiani”, ma procede da un dato di fatto. In Italia, caso forse più unico che raro, la gente corrotta, una volta scoperta, non si vergogna. Anzi, rivendica il diritto a mantenere il posto che occupa, sia esso politico o semplicemente amministratore.
In alcuni accenti e in alcune difese personali, sovente si scorge addirittura un certo orgoglio. Come se commettere reati di questo tipo dimostri al mondo che tizio è più furbo dei furbi. Altrove, non è così. Anche in paesi dove comunque la corruzione è un fenomeno rilevantissimo, ad agire da deterrente non è solo la legge ma anche e soprattutto la vergogna sociale. I caso più emblematici sono due, uno avvenuto in Germania e uno avvenuto in Cina. Nonostante la differenza di accenti e sfumature, emerge un convincimento: chi viene scoperto viene esposto al pubblico ludibrio e fa ammenda.
Con tutto ciò non si vuole dire che la Cina e la Germania sono culturalmente superiori all’Italia, ci mancherebbe. Però è vero che, a prescindere dal corpo di leggi, in questi paesi così differenti tra di loro, la punizione arriva immediata e inesorabile: il disprezzo da parte della comunità.
Una parte della popolazione italiana, invece, guarda incosciamente con ammirazione chi si è arricchito in maniera illecita. “E’ stato più furbo degli altri, bravo”. E’ questo il commento che a volte si sente. Sono tante le possibili dimostrazioni di questa differenza abissale tra Italia e Cina-Germania. Ricordiamo l’episodio del ministro dell’Istruzione tedesco, Annette Schavan, che nemmeno è stata coinvolta in fenomeno corruttivi ma ha “solamente” copiato una tesi di dottorando. Appena la notizia è uscita dai giornali, l’esponente di Governo ha chiesto pubblicamente scusa e si è dimesso. Il confronto con i parlamentare italiani inquisiti di qualsiasi reato eccetto lo stupro e l’omicidio (e molti altro per fortuna) viene facile.
Emblematico anche la vicenda cinese. Il presidente Xi sta spingendo affinché ai cinesi accusati di corruzione sia impedito di suicidarsi. “La morte non deve essere una via di scampo” ha detto. Il succo del discorso è che, se in Germania i corrotti scoperti si dimettono, in Cina addirittura si uccidono per la vergogna. Ora, auspicare il gesto estremo è da pazzi, ma l’acquisizione di un minimo di vergogna sociale quello sì. Per questo la battaglia contro la corruzione è soprattutto una battaglia culturale. Si vince con leggi, ma anche con la formazione.
Giuseppe Briganti