Gli amministratori e gli imprenditori che in Italia fanno della corruzione uno strumento di prosperità economica (per loro) e di impoverimento (per la collettività) spesso si giustificano dicendo che questo fenomeno è presente in ogni Paese. Ovviamente, non è un’evidenza tale da giustificare o addirittura legittimare qualsivoglia episodio corruttivo, ma è proprio vero: la corruzione – in misure e proporzioni variabili – c’è ovunque.
C’è soprattutto in Cina. Nel paese dell’ex Impero Celeste la corruzione coinvolge soprattutto gli amministratori locali che ricevono tangenti in cambio di concessioni economiche e appalti. Niente di strano, se non nei numeri. Numeri talmente grandi da far scattare l’allarme presso il governo centrale e l’intellighenzia che a esso fa riferimento. Lo dimostra un editoriale dai contenuti molto forti redatto dalla professoressa Lin Zhae della Scuola del Partito Comunista, principale organo culturale filo-governativo. La professoressa si scaglia contro una particolare categoria di corrotti: coloro che, indagati, tentano il suicidio. La sua invettiva raggiunge i livelli della minaccia: “Vi perseguiteremo anche da morti”. Sorvolando sulle “reali” capacità dei cinesi di perseguire i defunti, possiamo affermare che queste parole hanno una forza valenza simbolica: il Governo Cinese intende combattere la corruzione con così tanta foga da non mostrare pietà nemmeno per chi, presumibilmente pentito, si toglie la vita.
Nella pratica, la Zhae propone due interventi. Il primo di natura prettamente legislativa e che prevede la cancellazione della norma secondo cui il processo si ferma se l’indagato passa a miglior vita. Il secondo di più inquietante: le pareti delle sale preposte agli “interrogatori” dovranno essere coperte da materiali morbidi, in modo da impedire che gli interrogati compiano atti autolesionistici e potenzialmente in grado di portare alla morte.
Pur nella sua brutalità, il caso cinese ci insegna alcune cose e aiuta a comprendere la declinazione che il fenomeno assume in Italia.
- In Cina si corrompe e si viene corrotti ma la mentalità è diversa. Paradossalmente, è una mentalità che, da sola, è in grado di prevenire il fenomeno. I cinesi, infatti, si vergognano quando vengono scoperti. Il sentimento di vergogna sociale è così forte da spingere gli indagati al suicidio. In Italia, questo sentimento è raro tra i colpevoli e ciò causa il proliferare degli episodi corruttivi e la tendenza, da parte di questi ultimi, a mantenere le proprie posizioni di comando. In Cina ci si suicida, in Italia nemmeno ci si dimette.
- In Cina l’approccio alla questione è pragmatico. Potrebbe suonare strano, dal momento che si utilizzano frasi del tipo “vi perseguiteremo anche da morti” ma in verità la volontà di impedire i suicidi procede da una necessità concreta: il recupero delle somme sottratte. Quando un corrotto muore, con lui muoiono molti segreti. In Italia l’approccio non è così concreto e, anzi, ogni discussione si impelaga in ostacoli che sono soprattutto ideologici o, peggio, mediatici. Non interessano le cause del fenomeno e i suoi meccanismi, piuttosto i numeri su questa o quella mazzetta.
- In Cina l’approccio alla soluzione è durissima, in Italia si è troppo indulgenti. I corrotti si sentono giustificati, oltre che dal “così fan tutti”, anche dalle difficoltà economiche che sta attraversando il Paese e dalla pressione fiscale troppo alta. La popolazione, dal momento che le manifestazioni contro la corruzione in Italia scarseggiano, sembra quasi che accetti tacitamente questi ragionamenti.
Ovviamente, non si tratta di prendere in considerazione l’approccio cinese. Cina e Italia si pongono da questo punto di vista a due estremi, entrambi negativi. Ciò che accade a Pechino, però, aiuta a comprendere ciò che accade a Roma. L’unico elemento che può essere di ispirazione è quello “socio-culturale”, ossia quello della vergogna. Come già specificato sopra, in Cina si ruba come e più che in Italia, ma quando si è scoperti ci si vergogna. La vergogna sarebbe già un ottimo deterrente anche per gli italiani.
– Giuseppe Briganti