I bardi della corte di Arcore, ancora una volta, la sparano grossa. Gridano al “golpe rosso”, all'”attacco concentrico”, all'”esproprio proletario”. Molto più banalmente, depurate dal falso ideologico e politico al quale ci ha abituato la propaganda populista e vittimista del quasi Ventennio berlusconiano, le motivazioni della Cassazione sul Lodo Mondadori sono solo l’ovvia conseguenza civilistica di una verità giudiziale ormai acquisita. Una verità definitiva, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a questo punto diventa anche storica. Una verità che sveste il Sovrano di tutti i suoi finti orpelli e i suoi falsi scudi. E lo espone, nudo, di fronte alla legge e al Paese.
Cos’altro deve accadere, perché si debbano considerare vere e non più contestabili le accuse provate in ben sei gradi di giudizio, e infine sanzionate con una condanna dalla Corte d’appello di Milano il 9 luglio 2011? A cos’altro ci si può appigliare, per contestare quella sentenza esemplare in cui ora la Cassazione, trova come unico e paradossale “difetto” quello di essere “fin troppo analiticamente argomentata”? Eppure non basta, ai falchi e alle colombe del Pdl che insieme ai familiari difendono il Capo, in una rituale confusione di ruoli in cui come sempre il partito si fa azienda e l’azienda si fa partito.
I giudici di allora, come quelli di oggi, hanno scritto e ampiamente dimostrato due dati di fatto oggettivi, e non più controvertibili. Il primo: nella contesa che nel 1991 portò il gruppo Mondadori nelle mani del Cavaliere si produsse un episodio gravissimo di corruzione di magistrati, di cui Berlusconi fu l’ideatore iniziale e Previti l’esecutore materiale. Il secondo: se quel reato corruttivo non si fosse verificato, la casa editrice di Segrate sarebbe rimasta a pieno diritto nella proprietà del gruppo De Benedetti (editore di questo giornale).
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18-09-2013