Domenica 30 novembre ha fatto scalpore un servizio di Report in cui si perorava la causa dei lavoratori forzati. La tesi proposta in quei pochi minuti di televisione è la necessità di cambiare il trattamento dei detenuti. Dal momento che costano molto e sono per nulla produttivi, sarebbe meglio re-introdurre i lavori forzati. Ovviamente, la Gabanelli né il giornalista non hanno utilizzato questo termine ma la sostanza rimane quella.
Difficile, in prima battuta, essere in disaccordo con questo orientamento. Il pensiero dei cittadini, la maggior parte di essa almeno, vorrebbe che i detenuti venissero impiegati in opere di pubblica utilità. Sono due le argomentazioni a sostegno di ciò. In primo luogo, la necessità per lo Stato di risparmiare: le opere pubbliche vanno fatte ma spesso mancano i soldi. In secondo luogo, il fatto che il pubblico spende circa 4.000 euro al mese per mantenere un singolo detenuto.
Sono in verità analisi superficiali, di pancia. Insomma, poco lungimiranti. Gli effetti collaterali dei lavori forzati sarebbero di gran lunga più impattanti dei vantaggi. Più contro che pro.
In particolare, i rischi sono quattro .
- I lavori forzati getterebbero buona parte dei lavoratori in uno stato di povertà. Può sembrare un controsenso. Non servivano a migliorare la situazione economica del Paese? Il danno invece ci sarebbe, e pure grosso. La questione ha a che fare con la competitività. I lavoratori manuali italiani rimarrebbero semplicemente a casa, senza lavoro. I datori di lavoro, infatti, potendo scegliere tra un detenuto “gratis” e un cittadino libero e onesto, ma costoso, opterebbero per la prima scelta. Insomma, concorrenza sleale.
- I costi per la sicurezza sarebbero troppo onerosi. I detenuti, si sa, tendono a fuggire. Se gli si dà la possibilità di farlo, o li si inserisce in un contesto in cui la probabilità di riuscita della fuga è più alta, la situazione può diventare insostenibile. E’ necessario quindi dislocare forze dell’ordine per sorvegliare il detenuto-lavoratore. E’ sgradevole utilizzare polizia e carabinieri per fare la guardia a un criminale solo perché questi sta lavorando, ma in ogni caso le risorse necessarie per garantire la sicurezza e prevenire le “evasioni” sarebbero veramente troppo ingenti.
- Si ritornerebbe al Medioevo. Non è una questione di poco conto. I venti della precarietà spirano forti, non è necessario sottrarre ulteriori diritti. Perché i lavori forzati, sia ben chiaro, rappresentano un arretramento. Si tratta semplicemente se il fine (problemi economici e finanziari) giustificano i mezzi (compromissione del diritto del lavoro).
- Non si favorirebbe l’inserimento sociale. Il lavoro per i detenuti c’è gia. Ma non è un lavoro “offerto” a scopo prettamente economico. Non è uno strumento per sanare i bilanci – come invece i fautori dei lavori forzati auspicano – bensì un mezzo attraverso il quale inserirsi, ritornare a fare parte della società. Se privassimo il lavoro di questa accezione positiva, crescerebbe a dismisura la sensazione, nei detenuti, di essere sfruttati. Monterebbe la rabbia, l’indignazione – per essere trattati come schiavi e non come essere umani – con conseguenze nefaste per la questione della recidiva. Un lavoratore forzato non può essere una persona felice, e una persona triste e arrabbiata non ha gli strumenti adatti per scendere a compromessi con le sue abitudini (criminali) e reintegrarsi nella società.
Giuseppe Briganti