Le testimonianze di Massimo Ciancimino non sono preziose solo per il contributo che stanno dando alle indagine sui rapporti tra mafia e istituzioni ma anche – e forse soprattutto – perché restituiscono l’immagine dell’Italia sporcata non solo da squallidi compromessi tra la sfera legale e la sfera illegale (Stato e Cosa Nostra) ma da una galassia di piccoli reati, sfregi alla meritocrazia, negazione di diritti.
Da questa prospettiva, appaiono emblematici due aneddoti che Massimo Ciancimino racconta nel suo libro “Don Vito”. Protagonista, ovviamente, suo padre: Don Vito.
L’autore ricorda un episodio che suo padre gli raccontò. Un episodio in cui il sentimento di solidarietà per un amico è sfociato in un reato. Cosa non si farebbe per aiutare un amico in difficoltà? Porre questa domanda a Vito Ciancimino sarebbe stato un mero esercizio di retorica. La risposta sarebbe stata “tutto”. E a Palermo ciò era risaputo.
Lo sapeva un docente dell’Università di Palermo – del cui nome Massimo Ciancimino non ha voluto fare menzione. Proprio lui si trovò, un giorno, a chiedere un favore enorme all’amico Vito, che non si tirò certo indietro.
Questi i fatti. Il professore sosta in un parcheggio buio di una non meglio precisata zona di Palermo. Un rapinatore si avvicina e gli intima di consegnargli il portafoglio e altri oggetti di lavoro. Tiene in pugno una pistola. Ma anche l’aggredito è armato, solo che la pistola la tiene nascosta. La tira fuori, spara, ammazza.
Eccesso di legittima difesa? Forse sì, forse no. Fatto sta che il cuore del docente si gonfia della paura più nera. Teme di finire in carcere. Soprattutto, teme di ritrovare in prigione gli amici del ladro ucciso, pronti a vendicarsi. Nella sua testa – e probabilmente anche nei fatti – è un assassino ma anche la futura vittima di una vendetta.
A togliere le castagne dal fuoco sarà Vito Ciancimino. Lui, politico già affermato nella Palermo degli anni Settanta, non può fare nulla direttamente. Indirettamente sì e nella fattispecie chiedendo a sua volta aiuto all’amico questore. E’ questi a ideare il piano che salverà la pelle al professore. “Per prima cosa si sbarazzi dell’arma, poi vada a denunciarne lo smarrimento, i carabinieri retrodateranno la denuncia”.
Idea geniale: è impossibile che una persona disarmata spari a un ladro. Qualche settimana dopo, la morte del ladro fu archiviata come un regolamento tra bande rivali.
Massimo Ciancimino commenta così l’episodio: “Quale altra sinergia di amici potenti avrebbe potuto risolvere in modo così brillante un problema che ai comuni mortali sarebbe apparso insuperabile ?”
Il secondo aneddoto, pur presupponendo un reato, fa quasi tenerezza. E’ una storia di raccomandazione come ce ne furono tante in quegli anni, ma con qualche paradosso a renderla interessante.
A Vito Ciancimino fu chiesto di raccomandare un giovane affinché venisse assunto come operaio del Comune. La trafila per entrare non era delle più semplici: si doveva sostenere una specie di prova pratica di fronte a una commissione di funzionari comunali, tra cui c’era il cugino di Ciancimino, Enzo Zanghì.
Il ragazzo, a quanto pare, era stato raccomandato all’ex sindaco di Palermo addirittura da Bernardo Provenzano. Doveva essere assunto a ogni costo.
Un piccolo particolare, però, rendeva l’impresa alquanto ardua. Il racconto di Massimo qui si fa quasi umoristico. Zanghì chiama Don Vito e lo rimprovera così: “Vito, ascoltami. Ma l’hai vista quella persona che hai raccomandato? Vito, gli manca un braccio, hai capito? Come fa uno con un braccio a collocare un palo? Ciancimino non si scompose nemmeno di fronte a quella rivelazione e, anzi, rimproverò a suo volta il funzionario: “E allora? Vuol dire che il palo lo metti tu al posto di quello sfortunato! Enzo mio, se era una cosa normale che chiamavo a te? Bastava nome e cognome, se era una cosa normale”.
Fu così che un ragazzo senza un braccio divenne all’improvviso capace di lavorare come operaio.
Giuseppe Briganti