Prima o poi doveva accadere. Come un immenso fiume di lava che preme dalle viscere della terra, il disagio nelle periferie è esploso tutto in un colpo. Catalizzatori, una crisi economica senza fine e l’assenza dello Stato.
In squallidi quartieri tutti cemento e graffiti, milioni di persone sono costrette a sopportare un’esistenza compromessa dall’alienazione, da quel senso di estraneità a tutto – e nello specifico alla vita sociale del Paese – che è causato dall’assenza totale di servizi. Tutto ha avuto inizio da Tor Sapienza, quartiere ai margini di Roma, teatro dello scontro tra la popolazione locale e i rifugiati in un centro di accoglienza. I secondi sono accusati di essere responsabili del degrado (sporcizia, spaccio, prostituzione). I primi sono accusati di razzismo.
Poi è stato il turno di Milano. Molti quartieri si sono ribellati all’occupazione di alcune case popolari da parte degli immigrati. In particolare in zona Lorenteggio e nel nord-est si sono registrati scontri molto accesi che hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine.
Di chi è la colpa? Sono tanti i fattori in gioco. In primo luogo la crisi, anche se può essere considerata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ad agire in sottotraccia è stata l’esasperazione causata dalla pessima gestione del territorio. Gestione che affonda le sue radici in un approccio negativo all’urbanistica. E’ la struttura stessa delle periferie ad aver creato i presupposti per il disagio.
Cemento su cemento. Assenza di verde pubblico. Zero asili nido, scuole, piazze o punti di incontro. Palazzoni grigi, costruiti con poco raziocinio, pensati per ospitare – nella migliore delle ipotesi – gruppi eterogenei di persone. E si sa, in questi casi la diversità può essere veicolo di tensioni sociali. Se si pone la questione su questo piano, è facile individuare i responsabili. Dal punto di vista politico è responsabile la sinistra. Le periferie teatro delle rivolte sono state costruite negli anni Sessanta e Settanta.
All’epoca governava il centrosinistra (democristiani, socialdemocratici, socialisti) mentre l’egemonia culturale, che si esprimeva anche in ambito architettonica, era in mano alla “sinistra-sinistra”. L’impronta, vista l’epoca, era addirittura sovietica. Da questo approccio sono nati i quartieri-alveari. Dal punto si vista individuale, è altrettanto facile individuare i nomi. Vittorio Gregotti, per esempio, ha progettato lo Zen di Palermo. Mario Fiorentino ha progettato il Corviale di Roma. Franz di Salvo, Le Vele di Scampia e via discorrendo.
All’epoca, l’unico a tuonare contro lo scempio è stato Massimiliano Fuksas. Interrogato oggi ha risposto: “L’errore era nell’idea di partenza: aggregare artificiosamente persone estranee che spesso non si amano e spesso finiscono, assieme, per odiare te e chi li ha deportati in quel luogo estraneo e rigido”.
A rincarare la dose è stato di recente anche uno scrittore, Pierangelo Buttafuoco, che ha sentenziato: “L’ideologia della sinistra collettivista è la vera responsabile. L’ossessione totalitaria di creare ghetti pulviscolari cui destinare sacche di popolazione da indottrinare, eventualmente, dopo. Non a caso Tor Sapienza è un quartiere a tradizione comunista, uno dei posti chiave della mobilitazione di sinistra. Il mito architettonico della città ideale si è incarnato in palazzoni e colate di cemento. Luoghi dove la gente vive come se fosse infilata negli scaffali”.
Giuseppe Briganti