“Cercavo di lavorare, ma per lavorare dovevo pagare i politici. Non volevo, ma purtroppo l’ho fatto”. Questa è la confessione che Giuseppe Pasini, imprenditore edile, ha reso a Report in occasione della puntata del 20 novembre 2011. E’ lui uno dei protagonisti del Sistema Sesto. Protagonista in una veste che non avrebbe mai voluto indossare, quella di corruttore. In questa vicenda, però, le vecchie definizioni valgono poco. Pasini, e con lui gli altri imprenditori che per lavorare devono pagare, ritenuti correi di politici per un atto criminoso, assomigliano più a delle vittime che a dei carnefici. Difficile stabilirlo se non in sede dibattimentale, nel processo. Colpevole una legislazione inadeguata.
Il teatro del Sistema Sesto le aree Falck , vecchio polo industriale di Sesto San Giovanni dismesso nel 1996. Con l’inizio del nuovo decennio si sarebbe dovuta avviare una valorizzazione che avrebbe richiesto l’opera dei costruttori.
E’ il figlio di Giuseppe Pasini a dare una dimensione, comunque vaga, dei contributi che gli imprenditori hanno versato ai politici.
“Centomila, Duecentomila? Molto di più. Forse cinque milioni, ma vado a sensazione. Erano veramente tanti soldi”.
I destinatari di questi “regali”, veri e propri ricatti nei confronti dei costruttori, erano gli amministratori. Tra questi spicca Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano fino al 2009 e figura di riferimento del centrosinistra lombardo. A curare i rapporti con le vittime e con tutti gli intermediari del caso, Giordano Vimercati, anch’egli politico.
In mezzo è finito ancora Piero Di Caterina, che qualche anno dopo sarebbe diventato il principale teste del Sistema Sesto. Penati doveva restituire parecchi milioni a Di Caterina. Gli “uomini del presidente” escogitarono un metodo per rimettere il debito in questione in modo da non essere perseguiti dalla legge. Consegnare in nero tutto quel denaro era troppo pericoloso. Fu pensata una soluzione: chiedere ad altri imprenditori di restituire prestiti con altri prestiti. Difficile sottrarsi alla volontà del politico. Nell’economia pubblica del nostro Paese interrompere le relazioni con il potere può risultare molto rischioso. Può costare l’esclusione dal sistema. E quindi il rischio di gravi danni, fino al fallimento.
Il debito di Penati nei confronti dell’imprenditore aveva radici nei costi della politica che quest’ultimo era stato chiamato a finanziare. O costretto tacitamente a pagare.
Piero Di Caterina, ha spiegato a report la natura di queste tangenti. Di fatto ha ribadito il concetto di Pasini: senza quei pagamenti, un’impresa non poteva andare da nessuna parte.
“Con questi soldi una piccola impresa (quella di Di Caterina ndr) è riuscita a difendersi dall’abuso di posizione dominante del monopolista, quindi poter entrare nel sistema dei trasporti pubblici, che era assolutamente precluso alle piccole imprese con sistemi fuori legge di condizionemento del mercato”.
Può sembrare un paradosso, ma le tangenti permettevano alle realtà edili e dei trasporti di agire come se fossero in un arena competitiva normale. Ovviamente, il ripristino delle logiche concorrenziali era fittizio, dal momento che, al primo sgarro, il politico era pronto a chiudere le porte, in barba alle promesse fatte in sede di pagamento.
A dimostrazione di ciò va riportato un episodio cruciale: la fine dei rapporti tra i Pasini e il Penati. Nonostante i milioni già versati, l’allora sindaco tentò di far entrare, praticamente gratis, le cooperative emiliane. Pasini, sentendosi privato della propria libertà d’impresa, protestò. Penati, per ripicca, gli precluse la possibilità di lavorare.